Spade non teme, e che di fe fa fcude, Dovunque alma ragione il paffo aprille. Virtù chiam' io, che 'l petto ancor chè nude Offre agli affanni, e a vincerla non basta Falaride, o Neron fpietato, e crudo. Ma a noi la pace il reo defir contrasta, E mesce in coppa d'oro atro veleno D'una più fitibonda empia cerafta. E vogliam poi, che fufo in ciel non ftiene A fmafcellar di rifa? Eh cheggiam quello, Senza di cui fariem felici appieno.. Perchè non chiedi, che ridente e bello, F fia ben faldo del tuo cuor lo specchio, E ammetta in fe della bontà fuggello? Tu chiedi di poter anco col fecchio
Bere il vin di tre vigne, ed il frumento Del nuovo Giugno accumulare al vecchio ; Quafi a fedare il natural talento
Non bafti un fol fiafchetto, una pagnotta, E di Pontormo a menfa il frale argento. E tu vorrefti, alla Peruvia flotta
Ti fpianaffe il Colombo, ed Americo La dubbia ftrada, che già parve rotta, Che fe tu chiedi d'effer ricco, io dico, Che,' facci, ad effer poi cortefe, e umano A più d'un Iro, che ne va mendico. Ma veggio, che non preme a fer vorano, Che 'l popolo lo chiami un raugeo,- Un vil taccagno, un Aretin marrano. Che importa avere un nome infame e reo? Pur ch' abbia traboccata la bigoncia, Chiaminlo Ginevrin, chiaminlo Ebreo, Almen di lui fi fa l'usanza fconcia D'aver dipinta la giustizia in faccia, E poi fognar lo ftajo, e intaccar l'oncia, Ma Lombardo la cui falta barbaccia
Ha intimato alle ftufe eterna feria, E di che penfi, che egli vada in traccia? E dice genufleffo o fanta Egeria,
Jo fon pur il tuo Numa: Qr d'effer Vefca.
Stagnami la mordace diffenteria. Perchè ho un pulmone, che tal fente il fresco D'un' aura vana, ch' io divento pazzo, Se un paggio mi faluta, o un Tedesco. Che gufto allor che con il pallio fpazzo Le fcale, udir: Queft' è di quei, che fanno; Pah che gran configlier viene a palazzo! Già Mazzarino, e Richelieu fi ftanno Alla fua ftaffa, ed ha gualdrappe, e mule Che già fedea in vil ficulneo fcanno, E forfe gli ftaria meglio un grembiule D'un macellaro infanguinato, e lordo, Che 'l roccetto, la mitra, e la curule. Or non fi debbe gir dunque all' abbordo Di quefte navicelle? ecco, ch' a'miei Voti il benigno ciel fembra d'accordo. Quanti vedranno, ohimè, de' lor trofei Orribile difpreggio, e quanti in scherno Vedran gli affalti ritornar Flegrei. Che a facro eletti paftoral governo Strofinan per le corti la mozzetta. E'l temporal pofponjono all' eterno. Non è però, che fdegno in cuor non metta Il veder, che per nuovo Aron s' accoglia, Chi l'arca atterra, e 'l fantuario getta. Ed all' ipocrifia lieto s' ammoglia,
Perchè 'ntende; che 'l guado de' mortali, Non è lince, che paffi oltre la fpoglia. Dammi, dice coftui, che i miei brutali Vizj, ió nafconda, e lor d'intorno fpiega Tenebre denfe, ed all' Egizie eguali. Dammi, ch' io faccia col difprezzo lega, Sicch'io non tema, ed al macchion ftia faldo, Se alcun talvolta i falli miei difpiega. Dammi, ch' io poffa temerario, e baldo Salir non visto a' Pitti, e fur la spia, Dovè più d'un la fava metta in caldo. Dammi, ch' io poffa aver la fagreftia Del Vefcovo di Mira, e ch' io vi feggia O per favore, o pur per fimonia,
Così l'empio favella, e 'l ciel dileggia;
Ma un uom dabben ripiglia: Anzi ch' io moja Fa, fignor, che fquartati i furbi io veggia, E mi contento d'effere il loro boja.
(Vielleicht ist dieser Cavaliere Dotti noch am Leben, deffen Satiren, angeblich zu Genf, vermuthlich aber zu Wes nedig, in zwei Theilen in 12. herauskamen. Ihr Werth ist indeß so sehr hervorstechend nicht. Die hier abgedruckte dreis zehnte wurde durch die Verbrennung der Schriften des Verfassers auf Befehl des mailändischen Senats veranlaßt, wor: über er hier eine dritte erdichtete Person unter dem Namen Cremuzio Codro, den römischen Senat anreden läßt.)
Innocente fon' io così di fatti,
Che la cenfura i detti miei caftiga; Solo i fogli ch' irriga
Inchiostro veritier, chiama misfatti; Pur illefi ed intatti
Dalle bestemmie in loro, e dai dispregi, Lafcian l'altar ai Numi, il foglio ai Regi. Io fol rammemorai d'animo vasto
L'audacia, che non foffre il piè ful collo, Rappresentai che 'l crollo
Die d'un tiranno all' infoffribil fafto; Ma fe trova contrasto,
Ma fe un imprefa tal pene riceve, A qual' opra miglior premio fi deve? Ah giudici fedotti, ah non d'Aftrea, Ma dell' altrui livor ministri avari: Ah d anime vulgari
Meccanica union, curia plebea, Ah ruftica affemblea,
Ah raccolta di popolo mal nato, Ah maritima ciurma, e non senato. Di fervitu natia giogo tenace, Si domeftico avete alla cervice, Ch' un impero felice
In altri ancor di libertà vi spiace. La libertà verace
Si detefta da voi: per voftro editto Colpa è il valor, la verità è delitto. Non già fenfi dettai, ove fi cova Di bugie velenofe angue nocente; Ma fe il mio labro mente,
Pria di punirlo, almen non fi riprova? Ah, che più nobil prova
Sortir non può, nè teftimon più degno Ha la mia verità, del voftro fdegno, Or arda pur il voftro fdegno, et arda Nel Mongibello fuo le carte mie; Chè non per quefto al die
Nafconder le potrà legge infingarda: Con vena più gagliarda
Tofto riforgeran nuovi germogli; Vive nel fuoco ancor l'idra de' fogli. Ridicola pazzia, creder, che poffa D'iniqua poteftà l'orgoglio, e l'ira, Col donarli alla pira
Loro dar nell'oblio l'ultima fcofla:
La rigida percoffa
Non li fopprime no, nè li diffama,
Ma dal fupplizio loro han maggior fama.
Qual rabbiofo maftin, che se gli avventa Impetuofa man volante faffo,
Con follecito paffo
Frenetico lo fegue, indi l'addenta;
Che fa? Solo tormenta
Se medesmo ne' morfi, onde lo ftringe, E del fuo fangue al fin f'imbratta, e tinge.
Dell empia tirannia di regio Trono
Che d'ingenuo ferittor l'eftro facondo, Tenta levar dal Mondo
Con la vendetta più, che col perdono, Che può acquistar col tuono,
Il derifo furor! Scoppiando intorno A lui fuona l'applaufo, a lei lo fcorno. Là, fu dunque, fu fu, padri conscritti, Tutele della patria, incliti eroi, Incenerite voi
Senze opra del carnefice i miei fcritti; Da più vil mano afflitti
Saran, che di carnefice nefando:
Sempre il giudice ingiufto è il più efecrando. Oh fpettaculo truce, oh del Romano
Già fagro tribunal, obbrobrio eterno,
Che recchi più di fcherno
Di manigolda man, togata mano,
Che dell' affetto infano,
Di fcellerata publica vendetta
Sia più infame il comando, o chi lo detta.
Ma tu mio libro, tu di leal fenfø
Venerabil depofito fincero,
Che martire del vero,
Ardendo paghi all' ingiustizia il cenfo, Col tuo fumo più denfo
Col tuo cener più folto a quefti fciocchi Giudici, più che cicchi, entra negli occhi. Ah no, pur troppo ad onta lor riforto, Qual fenice immortal, dall' empio rogo, Avrai più vasto luogo
Da ridir lor in faccia il tuo gran torto, Godrai l'alto conforto
D'irne più defiato, e più riletto
A mia lode, a tuo vanto, a lor, dispetto. Giacchè finte malediche menzogne Difonefto inventor, tu non favelli, Al foro pur t'appelli
Scuopritor dell' altrui fozze vergogne I biasmi, e le rampogne
Cui genio altier fuol provocar tal volta, Con tropp' avide orecchie il mondo ascolta.
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