תמונות בעמוד
PDF
ePub

Ariosto.

(Es giebt der italianischen Satirendichter eine zahlreiche Menge, aus welcher hier nur einige der vorzüglichsten ausgehober find. Von ihnen und den meisten übrigen giebt Hr. Prof. Flögel in seiner Geschichte der komischen Literatur, B.11..55ff. umständlichere Nachricht. Ludovico Ariosto,geb. 1474, gestorben 1533, erlangte zwar den größten Ruhm als erischer Dichter; aber auch seine fieben Satiren, in horas zischer Manier geschrieben, erhielten bei seiner Nation klass fisches Ansehen, und sind auch als charakteristische Gemähl de des Lebens und der Denkungsart dieses großen, außerst phantasiereichen Dichters, sehr zu schäßen. Weber ihren Ins halt kann man Hrn. Jagemann's Fortseßung oder dritten Band der Meinhardischen Versuche über die italianischen Dichter, S. 113 ff. der Ausgabe in klein 8. nachsehen. der folgenden, welche die siebente ift, lehut er das Anerbies ten seines Freundes, Buonaventura Pistofilo, Sekretärs des Herzogs von Ferrara, von sich ab, der ihm die Stelle eines Gesandten an den Park Klemens VII. verschaffen wollte.)

Piftofito, tu fcrivi, che, fe appresso

Papa Clemente ambafciator del Duca
Per un anno o per dui voglio effer messa,
Ch'io ten avvifi; acciò che tu conduca
La pratica; e proporre anco non refti
Qualche viva cagion che mi vi induca:
Che lungamente io fia ftato di quefti
Medici amico, e converfar con loro
Con gran domeftichezza mi vedefti,
Quand' eran fuor ufciti, e quando foro
Rimeffi in cafa, e quando in fulle roffe
Scarpe Leone ebbe la croce d'oro.
Che, oltre che a propofito affai fosse
Del Duca, iftimi che tirare a mio
Utile e onor potreì gran pofte e groffe:
Che più da un fiume grande, che da un riq

In

Poffe

Ariosto.

Ariosto.

Poffo fperar di prendere, f'io pefco
Or odi quanto a ciò ti rispond'io.
Io ti ringrazio prima, che più fresco
Sia fempre il tuo defire in efaltarmi,
F far di bue mi vogli un barbaresco.
Poi dico, che pel foco e che per l'armi

A fervigio del Duca in Francia e'n Spagna
E'n India, non che a Roma, puoi mandarmi.
Ma per dirmi, che onor vi fi guadagna

E facultà, ritrova altro zimbello,
Se vuoi che l'augel cafchi nella ragna.
Perche quanto all' onor n' ho tutto quello
Ch'io voglio; bafta che in Ferrara io veggio
A più di lei levarmifi il capello;
Perche fan, che talor col duca feggio
A menfa, e ne riponto qualche grazia,
Se per me o per gli amici gli la chieggio.
E fe, come d'onor mi trovo fazia

La mente, aveffi facultà abastanza
Il mio defir fi fermeria, ch'or fpazia,
Sol tanta ne verrel, che viver fanza
Chiederne altrui mi foffe in libertade
Il che ottener mai più non ho fperanza;
Poiche tanti miei amici podeftade
Hanno avuto di farlo; pur rimafo
Son fempre in fervitude, e in povertade.
Non vo' più che colei, che fu del vafo
Dell' incauto Epimetto a fuggir lenta,
Mi tiri, come un bufalo, pel nafo.
Quella rota dipinta mi fgomenta

Ch' ogni maftro di carte a un modo finge,
Tanta concordia non cred'io che menta.
Fuel che le fiede in cima fi dipinge

Uno afinello, ogn'un lo enigma intende
Senza che chiami a interpetrarlo sfinge.
Vi fi vede anco che ciafcun che afcende

Comincia a inafinir le prime membre,
E refta umano quel che a dietro pende.
Finche della fperanza mi rimembre,
Che coi fior venne e colle prime foglie,
E poi fuggì fenza afpettar fettembre:

Venne il dì che la chiefa fu per moglie
Data a Leone, ed alle nozze vidi
A tanti amici miei roffe le spoglie:
Venne a calende, e fuggì, innanzi agli idi:
Finche mene rimembre, effer non puotė
Che di promessa altrui mai più mi fidi.
La fciocca fpeme alle contrade ignote
Sali dal ciel quel dì. che 'l paftor fanto
La man mi ftrinfe, e mi baciò le gote;
Ma fatte in pochi giorni poi di quanto
Potea ottener le sperienze prime,
Quanto ando' in alto, in giù tornò altrettanto
Fu già una zucca che montò fublime

[ocr errors]
[ocr errors]

In pochi giorni, tanto che coperfe..
A un pero fuo vicin l'ultime cime,
Il pero una mattina gli occhi aperfe,
Ch' avea dormito un lungo fonno, e vifti
I nuovi frutti ful capo federfe,
Le disse: Chi sei tu? come salisti

Quaffù? dov' eri dianzi? quando, laffo,
Al fonno abbandonai queft' occhi trifti!
Ella li diffe il nome e dove al basso

[ocr errors]

Fu piantata moftrolli; e che in tre mefi
Quivi era giunta, accelerando il passo.
Ed io, l'arbor foggiunfe, appena afcefi
A queft' altezza, poiche al caldo e al gelo.
Con tutti i venti trent' anni contefi.
Ma tu, ch'a un volgar d'occhi arrivi in cielo
Renditi certa, che non meno in fretta
Che fia crefciuto, mancherà il tuo ftelo.
Cofi la mia fperanza, che a staffetta
Mi traffe a Roma potea dir, ch'io avuto
Per Medici ful capo avea l'accetta.
Chi gli avea nell' efilio fovvenuto,
O chi a riporlo in cafa, o chi a crearlo
Leon d'umil agnel gli diede ajuto.
Chi aveffe avuto lo fpirto di Carlo
Sofena allora, avria a Lorenzo forfe
Detto, quando fentì duca chiamarlo;
Ed avria detto al Duca di Nemorfe

[merged small][ocr errors]

Ariosto.. Al Cardinal de Roffi ed al Bibiena,

1

A cui meglio era effer rimafo a Torfe;
E detto a Contefina e a Maddalena

Alla nuora alla fuocera ed a tutta
Quella famiglia d'allegrezza piena:
Quefta fimilitudine fia indutta

Più propria a voi, che, come voftra gioja
Tofto montò, tofto farà diftrutta.
Tutti morrete, ed è fatal che muoja
Leone appreffo, prima ch' otto volté
Torni in quel fegno il fondator di Troja;
Ma per non far, fe non bifognani, molte
Parole, dico che fur fempre poi
Le avare fpemi mie tutte fepolte.
Se Leon non mi die, che alcun de fuoi
Mi dia non fpero: cerca pur queft' amo
Coprir d'altr'efca, fe pigliar mi vuoi.
Se pur ti par ch' io vi debbo ire, andiamo;
Ma non già per onor né per ricchezza:
Quefta non fpero, e quel di più non bramo.
Più tofto dì ch' io lafciari l'afprezza

Di quefti fafli e quefta gente inculta
Simile al luogo, ov'ella e nata e avvezza:
E non avrò qual da punir con multa,

Qual con minaccie e da dolermi ogn'ora
Che qui la forza alla ragion infulta:
Dimmi ch' io potrò aver ožio tal ora
Di riveder le muse, e con lor fotto
Le facre frondi ir poetando ancora:
Dimmi che ál Bembo al Sadoleto al dotto
Giovio al Cavallo al Blofio al Molza al Vida
Potre ogni giorno e al Tibaldeo far motto.
Tor d'effi or uno e quando un altro guida
Poi fette colli, che col libro in mano
Romà in ogni fua parte mi divida.
Qui, dica, il circo, qui il foro Romano
Qui fu Saburra, è questo il facro clivo,
Qui Vefta il tempio e qui folea aver Jano:
Dimmi ch' avrò di ciò ch' io leggo o fcrivo
Sempre configlio, o da latin quel torre
Voglia o da Tofco o da barbato Argivo.

Di libri antiqui anco mi puoi preporre
Il numer grande, che per pubblico ufo
Sifto da tutto il mondo fe raccorre.
Proponendo tu quefto, f'io ricufo
L'andata, ben dirai che trifto umore
Abbia il difcorfo razional confufo.
Ed in rifpofta, come Emilio, fuore
Porgerò il piè, e dirò: tu non lai dove
Questo calzar mi prema e dia dolore.
Da me fteffo mi tol chi mi rimove
Dalla mia terra, e fuor non ne potrei
Viver contento, ancorchè in grembo a Giove,
E, f'io non foffi d'ogni cinque o fei
Mefi ftat'uso a paffeggiar fra il duomo
E le due ftatue de Marchefi miei,

Da sì nojofa lontonanza domo

Se

Già farci morto, o più di quelli macro
Che ftan bramando in purgatorio il pomo
pur ho da ftar fuor mi fia nel facro
Campo di Marte ferza dubbio meno,
Che in quefta foffa, abitar duro ed acro.
Ma fe'l fignor vuol fanni grazia a pieno,
A fe mi chiami; e mai più non mi mandi
Più la d'Argenta, o più qua dal Bondeno.
Se, perche amo si 'l nido, mi dimandi,
Jo non te lo dirò più volentieri,
Ch'io foglia al frate i miei falli nefandi.
Che fo ben che direfti: ecco penfieri
D'uom che quarantanove anni alle spalle
Groffi e maturi fi lafciò l'altr'ieri.

[ocr errors]

Buon per me ch' io m'afcondo in quefta vallè
Ne l'occhio tuo può correr cento miglia
A fcorger, fe le guancie ho roffe o gialle.
Che vedermi la faccia più vermiglia
Bench' io feriva da lunge, ti parrebbe,
Che non ha madonna Ambra, ne la figlia,
O che il padre Canonico non ebbe

Quando il fiafco del vin gli cadde in piazza,
Che rubo' al frate oltre li dui che bebbe.

[merged small][ocr errors]
« הקודםהמשך »