Ah ben vidio, che torbido ne gira
Lo ciel vor noi con nova luce, e fella Che chioma ignea dirai dietro a se tira, Primiera apparve agli occhi miei la ftella Su quel nero cipreffo, e diffi allora Ma tu fu la zampogna alma, e fonora Lo gori il labbro, e a vergini forelle Da te cantate aggiungi irama ancora?
TIT. O Melibeo, pafciam le pecorelle
Guidiamle a l'ombra, a la fontana, al fium E di buon latte empiam cefte, e ficelle; Senza cercar qual'aftro in ciel's'allume, O che dimostri con le chiome sparse, Quel, che novo ora fplende oltre il coftum Se pur mai novo aftro laffufo apparfe, E non come Ligurio afferma, e crede, Girando venne in fuo tempo a mostrarfe Ma poco a me ne cal, che nulla fede Ho in chi de l'avvenir fi fa prefago Dietro cui sì gran turba andar fi vede Jo non ho, che due capre, e quel sì vago Mio buon giovenco, e quando altri mel toglia Più provero farò, ma non men pago. Faccia fortuna pur di me fua voglia;
Ella il favor meco contempra, e il danno Poco mi dié, di poco anco mi spoglia.
O fcenda il Franco, o l'Unghero, o il Bri
(E chi fa dir quei nomi?) io fiedo, e canto Nefto a cercar quel, che i gran Regi fanno Ed oggi, e chi potria tacere il vanto D'IRAMA, e non per lei gonfiar l'avena D'IRAMA in quefto fuol lodata tanto? Che di celefte fpirito ripiena.
Corre a facrarfi al Tempio, e a noi f'a- fconde
E pur toccava il terzo luftro appena!
Lei del Reno natio lungo le fponde
Chiaman le Ninfe a nome, e in quefte rive
IRAMA ogni antro, ed ogni eco rifponde Oimè, che fia di noi, che fole, e prive Di tua si cara, e dolce compagnia Lafci piangenti, e senza te mal vive? Ella le Ninfe, ella i fuoi bofchi obblia, Obblia la madre fua dolce, diletta, Nè pur f'arrefta a riguardar tra via Nè così ratta mai damma, o cervetta,
Che il crudo arciero tra le frondi ha fcorto Com'ella fugge, e il pie tenero affretta. Ma certo fia, che da l'occafo a L'orto
Perciò corra fuo nome, e il ciel cortefe Piova fopra di lei grazia, e conforto.
MEL. Mentre la gioja tua sì fai palese
Secondi il ciel ciò, che il tuo carme adombra Ma quinci efcan le gregge, or che discefe Da gli altiffimi monti maggior, Pómbra,
(Einer der fruchtbarsten und glücklichsten åltern franze, fischen Dichter war Pierre Ronsard, geboren 1524, ges forben 1585. Seine Sprache hat freilich noch die rohe, uns gefällige Gestalt ihres Zeitalters; aber doch auch manche aufs fallende Naivetåt; nur Schade, daß der Leser in dem Wohls gefallen hieran so gar oft durch unnatürliche Wendungen und müssigen gelehrten Prunk geftdrt wird. Dadurch wurde die Verachtung dieses Dichters bei der Nachwelt seiner Nation fast eben so allgemein, als die Bewunderung gewesen war, die ihm seine Zeitgenossen verschwendeten. Boileau sagt daher von ihm:
Sa Mufe, en François parlant Grec et Latin, Vit dans l'âge fuivant, par un retòur grotesque, Tomber de fes grands mots le falte pedantesque. In seinen Hirtengedichten hatte R. übrigens den bei seiner Nation auch in der Folge so herrschend gebliebenen Geschmack am Allegorisiren, oder am Verkleiden der Hofvorfälle und Hofsitten in Schäfertracht. Dieß ist auch bei nachstehender Schäferode der Fall, in der jedoch manche schöne und gefühls volle Züge dem Auge des Kenners nicht entgehen werden.)
Sur la mort de Marguerite de France, Soeur du Roi François I.
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